Piziarte Arte Contemporanea

Foto Grafie





















































Umberto Palestini


Foto - grafie

Nel primo capitolo di Trasgressioni, Anthony Julius affronta la questione dell'evidenza comunicativa della fotografia prendendo ad esempio la celebre e scandalosa immagine di Andres Serrano, Piss Christ. Egli osserva che "il dolore della crocifissione è in qualche modo velato, come se fosse al di là di uno schermo liquido. L'opera è una fotografia di silenzio, ed attenua l'orrore del suo soggetto", la considera come "innocua, rispettosa, oscura". Julius continua sostenendo che se l'osservatore si accostasse alla foto per conoscerne il titolo, questa prima impressione lascerebbe il posto allo stupore di trovarsi di fronte ad "un atto di irriverenza, uno scherzo alle spalle del soggetto e del pubblico". L'insegnamento che possiamo trarne è che l'evidenza fotografica, in molti casi, può rivelarsi nel suo esatto contrario, produrre un inganno. Spostando l'esempio dal contesto degli atti trasgressivi a quello della comunicazione ed al rapporto fra immagine e testo la problematica diventa particolarmente controversa. Da sempre, i teorici e i critici del medium fotografico hanno posto l'accento sull'ambiguo rapporto fra immagine e scrittura che in molti casi ha permesso pesanti manipolazioni, in quanto lo stesso atto del vedere è, secondo le parole di Nigel Warburton, "un'attività impregnata di teoria. Ciò significa che la visione non comprende solo l'immagine che si forma sulla retina: ciò che si sa o si crede influenza ciò che si vede". La ricerca di Giampiero Marcocci e Berardo Di Bartolomeo si pone in questo contesto di continui rimandi e di spostamenti di senso che le parole offrono alle immagini.
Il lavoro fotografico di Giampiero Marcocci si focalizza sull'individuo rendendolo materia viva per un'indagine che trova nella persona il soggetto centrale e suscita una sottile riflessione sull'identità. Nelle sue opere precedenti, l'autore affrontava le problematiche del ritratto e si concentrava sul volto trasformandolo in una tavolozza dove far affiorare emozioni soggettive. Secondo le parole di Simmel, infatti, "per questa sua specifica plasmabilità il volto soltanto diviene per così dire, il luogo geometrico della personalità intima, nella misura in cui essa è visibile". Il volto ripreso in primo piano e stampato con sapienti viraggi diventa per il fotografo la testimonianza di un'appartenenza etnica, di un'identità sottolineata da scritte in diverse lingue tratte dalla dichiarazione dei diritti dell'uomo; testi che conducono la sua ricerca dentro il nobile sentiero di una rivendicazione socio-politica oggi sempre più urgente e attuale.
Le opere recenti di Giampiero Marcocci sono una sorta di ideale e coerente continuazione dell'analisi intrapresa intorno alla figura umana, in questo caso restituita a colori, dentro lattiginosi e asettici fondali. Il fotografo sembra far materializzare i soggetti come scontornati da un altro contesto, mentre la loro "riconoscibilità" è affidata agli abiti che indossano ed agli oggetti di cui si circondano; l'indagine sul volto lascia il posto allo sguardo su una fisicità addobbata e descritta attraverso piccoli gesti, posture, elementi necessari per raggiungere la leggibilità dei rilievi interiori che ogni individuo trasporta con sé. Marcocci mette in atto una strategia che indirizza la sua ricerca all'interno di uno spazio che sceglie la narrazione, identificando i soggetti con un nome a cui fa seguire frasi, aforismi ripresi da autori celebri, trasformandoli in personaggi di micro-racconti proiettati su un palcoscenico in cui recitano pièces a loro forse sconosciute. L'autore modifica il classico tema del ritratto all'interno di uno schema narrativo che trasforma l'immagine in un carnet di appunti su sceneggiature ancora da scrivere. Se nel lavoro sui volti le immagini si accompagnavano a parole e a condivisi messaggi di solidarietà, qui l'ironia regna sovrana in un gioco delle parti in cui i personaggi, avendo trovato un autore, si inseriscono, complici, all'interno di una logica rappresentativa che in maniera intelligente coniuga svelamento e travestimento.
Mentre la ricerca di Giampiero Marcocci si lega strettamente al medium fotografico, quella di Berardo Di Bartolomeo si caratterizza invece per un fertile dialogo fra pittura e fotografia i cui principali soggetti sono lo spazio e l'ambiente. Già con il lavoro intitolato Thank you, aveva creato un suggestivo ambiente in cui la scritta, composta da micro-immagini di un'umanità bisognosa in cerca di riscatto, intervallava una tela sulla quale una vernice luminescente descriveva il volto di madre Teresa di Calcutta. L'opera, collocata in uno spazio dove venivano diffusi in sottofondo i mormorii di un'invisibile folla, diventava una sorta di laico rosario per raccontare l'umano dolore: un omaggio a quegli eroi contemporanei capaci di scendere in campo per sfidare la sofferenza sul suo stesso terreno.
Se le micro-immagini come tessere di un mosaico composto da mille volti formavano una parola di ringraziamento, con le opere più recenti Berardo Di Bartolomeo si fa reporter di voci diverse, di coloro che lasciano tracce ma di cui non si conosce l'identità. Con la macchina fotografica l'autore cattura scritte, parole, disegni e messaggi lasciati da mani sconosciute, grafie di pensieri materializzati su superfici e materiali eterogenei. Successivamente stampa questi scatti e li trasforma in tessere per comporre un mosaico dalle vibranti cromie, elaborando una sapiente texture pittorica percorsa dalle trame di un racconto polifonico, brusio materializzato da un compositore visivo capace di creare un concerto di voci lontane, sempre presenti.
A questo lavoro sulle scritte, costruito in maniera seriale grazie ad una duttilità in grado di modularsi su diversi formati, l'autore ne affianca un altro sui numeri che scopriamo essere "civici", indicatori di dimore, una numerologia che rinnega ogni riconoscibilità topografica per essere inscritta nella trama di raffinati accordi tonali. La sua ricerca fotografica è una sorta di caccia al tesoro in cui i reperti sono trasformati in segnali di una mappa dove vengono tracciati percorsi che conducono verso territori inattesi.
Le opere di Giampiero Marcocci e Berardo Di Bartolomeo, nella loro differente impostazione concettuale e nei loro opposti esiti formali, si trovano uniti all'interno di una logica dove l'immagine sembra non essere autosufficiente ma gioca in maniera sottilmente ironica e beffarda con la scrittura. E' come se l'immagine avesse bisogno del salutare benefico balsamo delle parole per trasformare le rigide evidenze in schegge di vita.































Berardo Di Bartolomeo "Grafie" 2003
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Berardo Di Bartolomeo "Grafie" 2003
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LA MOSTRA FOTO GRAFIE CONTINUA NELLA SECONDA SALA




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