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Immaginate una metropoli del nord Italia.
Anzi no, immaginate una piccola cittadina
di mare. Oppure no, immaginate uno sperduto
raccordo autostradale in mezzo al niente.
Poi immaginate l’ora tarda di una afosa notte
estiva, quando il calore rende liquidi i
contorni delle cose. Oppure immaginate un
tardo pomeriggio piovoso del pieno inverno,
quando l’unica cosa che vive al di fuori
dei vetri dei finestrino dell’auto sono le
luci delle altre auto, sfocate ma brillanti,
nel nero lucido dell’asfalto bagnato e buio.
Immaginate un ingorgo, uno qualunque, uno
di quelli da pendolari. E poi immaginate
la desolazione di una strada vuota. Se riuscite
ad immaginare tutto questo contemporaneamente,
ecco, forse riuscite a vedere attraverso
una delle immagini che Daniele Giuliani ci
propone.
Sono immagini chiare, familiari,
eppure contengono
qualcosa che ci lascia perplessi,
pensierosi.
Sono strade che non portano da
nessuna parte,
e che eppure hanno un senso compiuto
in se
stesse. Sono strade che non raccontano
di
viaggi, ma degli istanti in cui
sono state
percorse. Strade che sanno di
musica dall’autoradio,
di notiziari flash, di vetri
abbassati per
buttare via la cicca di una sigaretta.
Sono
strade di utilitarie, strade
che non hanno
nulla a che vedere con le moto
da Route 66,
strade dove i fuoristrada si
limitano ad
arrampicarsi sui marciapiedi,
strade dove
le biciclette sono fuori contesto,
dove il
navigatore satellitare non ha
senso, perche'
la strada e' la stessa, da sempre.
Come raccontava
Luigi Tenco.
E come Luigi Tenco Daniele Giuliani
riesce
a catapultarci nella quotidianita'
della
vita, negli istanti di un “immaginato"
comune, nella immobilita' delle
azioni. Attraverso
le sue immagini riesce a trasmettere
i rumori,
le percezioni, gli stati d’animo
che si allacciano
all’interno degli abitacoli delle
auto. Talvolta,
guardando le sue opere, viene
spontaneo muovere
la mano per cercare i tasti del
riscaldamento,
o il volume.
E’ una memoria a brevissimo termine, sbavata,
imprecisa, quasi spontanea. Come la tecnica
utilizzata dall’autore, lo spray, tecnica
dove il contorno e' per sua natura sporco,
sbavato, e va domato con le mani, va arginato,
va addomesticato. Come un’ombra che passa
velocemente al ciglio della strada, che lascia
si una impronta sulla nostra retina ma che
e' di difficile interpretazione, e che chiama
in aiuto la razionalita', la memoria, la
consuetudine per lasciarsi decifrare. E alla
fine il lavoro di tutte le nostre sinapsi
ci porta a riconoscere un gatto.
Daniele Giuliani gioca con i colori, li mortifica,
li rende talmente indefinibili da essere
unici. Ma questa loro unicita' non e' altro
che l’epitome della vaghezza. Colori che
possono essere tutto, carrozzerie scure,
contrasti di ombre, architetture buie, e
alla fine risultano non essere nulla di preciso.
Solo atmosfere. Perche', ancora una volta,
la strada percorsa di notte non regala colori,
ma solo sagome veloci.
Sono pochi colori, in verita', perche' la
notte asfaltata non lascia molto alla cromia.
Ma sono colori che vogliono vivere, colori
che si scontrano, che si sovrastano per attimi
incessanti. Sono i pochi colori essenziali
della notte: il nero del catrame, delle auto
anonime al ciglio della strada; il giallo
lancinante delle luci, degli aloni. Il resto,
non esiste. Il rosso, il verde, l’azzurro,
sono solo accennati, piccoli spunti di segnaletica
stradale… Ad una strada, di notte, non servono
i colori. Non e' un viaggio tra la campagna.
Di una strada, di notte, non ricordiamo i
colori.
Ricordiamo il freddo, la noia, la consuetudine.
Gli stessi che descriveva Luigi Tenco. Una
quotidianita' normale, non angosciante ma
comunque cupa, una ripetitivita' che e' sintomo
di punto di rottura, di presa di coscienza
del sopraggiungere della crisi. Le strade
di Daniele Giuliani prendono l’individuo
e lo mettono in discussione con il mondo
e con l’esistenza. Perche' lo costringono
a guardare cio' che solito si limita ad attraversare.
Lo costringono a guardare dentro l’obiettivo
della telecamera di sorveglianza, ad ammettere
il vuoto che continua nella strada dopo il
proprio passaggio, e che e' la rappresentazione
della inconsistenza di ciascuno. Lo costringono
a vedere con fissita' cio' che di solito
e' un contorno sfuggente e mobile alla propria
vita.
In tutti questi paesaggi urbani,
non e' la
citta' ad essere protagonista,
ma i suoi
abitanti. Invisibili. I loro
silenzi. La
loro spersonalizzazione. La necessita'
che
esistano, per dare un senso ad
una strada
che tale non sarebbe, se non
venisse percorsa.
Le sue immagini sono rassicuranti,
perche'
conosciute, perche' statiche.
Sono calde.
accoglienti. domestiche. Sono
rassicuranti
solo perche' uguali a se stesse.
Uguali a
come erano ieri. Uguali a come
saranno domani.
Strade dove il codice non cambia
mai, e la
linea bianca e i caldi colori
delle vetrine
illuminate significheranno sempre
la stessa
cosa. E quindi e' una immagine
netta, ben
definita, che ricordiamo, che
si fissa nella
nostra mente, riconoscibile ma
non nitida.
E’ un già visto del presente.
Sono istantanee urbane. Che non
significa
urbanistiche, perche' probabilmente
neanche
chi abita sopra ai luoghi da
lui illustrati,
con le sue penne a sfera, riuscirebbe
a riconoscere
in quei tagli fotografici la
propria citta'.
Nulla e' lasciato all’identificazione.
I
dettagli, se anche ci sono, non
hanno un
ruolo: sono talmente contestualizzati
da
essere solo parte dell'ambiente.
E il risultato
e' straniante: le strade le piazze,
nate
dall’uomo, nate per l’uomo, sopravvivono
anche senza l’uomo. E’ una realta'
innegabile,
che costringe l’individuo ad
ammettere la
propria caducita', la propria
aleatorieta'.
La strada, che e' solo un tratto
di quotidiano,
un luogo nel quale si congiungono
i tempi
ed i modi di specifiche esistenze,
ponte
tra case, uffici, scuole, improvvisamente
da strumento diventa protagonista.
Acquisisce
una propria dignita' che bellamente
sbeffeggia
l’essere umano, che non si cura
della sua
personalita', dei suoi tempi,
dei suoi ricordi.
Donatella Lanciotti
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